venerdì 10 dicembre 2010

Appuntamento al buio, romanzo.





 
Premessa




Mia madre è certa di sapere quale sia la donna che fa al caso mio. Purtroppo è altrettanto certa che io non sarò in grado di accorgermi di questa creatura, destinata a me dai tempi dei tempi, che mi passerà accanto, incrociando la sua esistenza con la mia.
Per questo motivo, oltre che per tutta un’altra infinita e opinabile serie di ragioni, crede che io abbia assolutamente bisogno del suo aiuto: nel momento in cui la donna predestinata mi passerà accanto, lei (mia madre) sarà lì, pronta ad aprirmi gli occhi. “Nel caso in cui tu fossi distratto!”, ha aggiunto. “Distratto da cosa?” ho chiesto, temendo la risposta. “Da qualche altra donna che ti dovesse far perdere la testa!”, ha risposto. Avrei voluto ribadire che la donna giusta poteva essere l’altra, quella per la quale avessi perso la testa, ma mi sono mancate le parole e ho fatto finta di essere distratto. 
Dall’età della ragione, mia madre non ha mancato occasione per ripetermi la sua teoria sulla necessità di procreare. Il futuro della razza umana, dal suo punto di vista, pareva riposto esclusivamente in me, diciottenne allampanato, quasi fossi l’ultimo maschio rimasto sul pianeta Terra.
 Nella sua materna lungimiranza, lei ha sempre sostenuto che ognuno di noi abbia, da qualche parte nel mondo, un’unica, perfetta e sincronizzata anima gemella che vorrebbe essere trovata da quell’unico altro, mischiato tra miliardi di altri, che potrà rendere felice solo lei. Dunque, in qualche remota parte del mondo (ma molto probabilmente nella mia stessa città) si troverebbe la mia lei, perfetta per me come nessun’altra e capace di rendermi felice, aldilà d’ogni mia immaginazione.
Ma mi chiedo: cosa intende esattamente mia madre con nessun’altra? Pensavo che il vero amore fosse una questione di affinità elettive, sincronia d’intenti e progettualità comuni, che si costruiscono giorno per giorno nel confronto e nel dialogo.
Ma se mia madre ha ragione, ho praticamente una probabilità su un miliardo di trovarla.  E questo, in ogni cultura conosciuta, civilizzata o no, pre o post-industriale che sia, si chiama in un solo modo. Culo.
Dunque, quale percentuale di successo può avere una spedizione di ricerca che parte già con tali presupposti? Ha avuto più probabilità di riuscita Neil Armstrong quando, nel ’69, seppe che per lui era arrivato il momento di abbandonare l’atmosfera terrestre. In quella capsula non più grande di un Uovo di Pasqua, mentre osservava il pianeta Terra che si allontanava sempre più, forse anche lui pensava che il successo di quella missione era solo una questione di culo? La sostanziale differenza tra me e lui è che io non devo fare i conti con le aspettative del mondo intero, ma solo con quelle di mia madre, fatto che non mi da il minimo sollievo. Inoltre, spero vivamente che il giorno in cui incontrerò la donna della mia vita, mia madre sia sufficientemente lontana e, nel caso in cui dovessi essere distratto, potrei avere pure i miei buoni motivi. L’idea di una Grande Madre che mi osserva, pronta ad indirizzare le mie pulsioni amorose, mi renderebbe felice quanto una valanga che viaggia a 80 Km l’ora e che mi vuole baciare.
A onor del vero, però, devo riconoscere che  ogni volta che le ho fatto conoscere la ragazza con cui uscivo è stata capace di predirmi con preoccupante esattezza la durata del rapporto. Dunque i casi sono due: o lei, nella sua materna preveggenza, sa veramente di che donna ho bisogno, oppure mi porta iella. In linea di massima, tendo a pendere leggermente per la tesi della preveggenza (che mi sembra più rassicurante della possibilità di una madre iettatrice) e, di conseguenza, sono felice come un tacchino americano alla vigilia del Giorno del Ringraziamento.

Agli occhi di mia madre niente è cambiato negli ultimi sei lustri, né nel mio aspetto fisico, né nei miei costrutti mentali e il particolare che io abbia ormai trent’anni e non quattro, è assolutamente di secondaria importanza. Per lei non c’è alcuna differenza tra me e mio nipote Luca, che ha davvero quattro anni, e probabilmente è per questo che  continua a regalarmi t-shirt con i personaggi della Walt Disney. Ma chi dovrebbe essere la mia compagna ideale? Paperina?
La sua premura nei miei confronti è rimasta invariata da quando la mia bici aveva tre ruote dietro e una davanti. E’ inutile che a tavola io dica di non avere fame, lei sa meglio di me se ho fame o no, allora come oggi. Che io abbia sei anni o trenta pare non conti molto, perché (oggi come allora) solo lei sa ragguagliarmi sui miei bisogni primari. Ricordo ancora quando mi diceva: “fai pipì, prima di uscire”, poco importava se non ne avevo voglia; “dormi che hai sonno”, quando più me lo diceva e meno ci riuscivo; o la variante ”dormi, che arriva l’uomo nero”, pensiero che mi teneva con gli occhi sbarrati nel buio per ore; e ancora “vestiti pesante, perché poi ti ammali”, così sudavo e mi ammalavo davvero. “Non correre, perché cadi!”, concludeva la serie. Io mi giravo per rassicurarla e inciampavo. 
Tornando ai rapporti di coppia, al giorno d’oggi non è semplice trovare l’anima gemella, l’atra metà della mela, l’altro cuore dentro una capanna. Forse perché la mela è diventata transgenica e la capanna, simbolo di sicurezza e progettualità familiare da sempre, è piena di ipoteche e tende piuttosto a rassomigliare a quella del porcellino pigro, precaria, instabile e tristemente spazzata via dal Lupo cattivo, che non a caso è single pure lui.
Mario, mio caro amico, che ha vissuto gli anni del liceo transumando dalla casa della madre a quella del padre e viceversa, non si pone il problema, perché a detta sua non c’è alcun problema. Lui, cinico fino al midollo, è convinto che il successo di un rapporto non stia in ciò che si cerca in una donna, ma in cosa la donna cerchi e, cioè, quel piccolo cerchio sormontato da qualche migliaio d’euro in bagliori carboniferi, che ogni donna (che lo ammetta o no, a parer suo) brama fortemente. Marilyn Monroe docet.
Se si vuol far funzionare un rapporto, dice lui, il gioco sta tutto nel far credere alla fortunata di turno (quindi fortuna per poco) che presto, molto presto, il suo anulare verrà dolcemente appesantito, amorevolmente avvolto dal suo più recondito desiderio, promessa di un amore sempiterno.  Peccato che Mario non conosca il significato di questa parola, sia nel senso letterale che in quello traslato. Dipenderà anche dal fatto che è figlio di genitori separati, ma sempiterno, per lui, è una parola straniera e un rapporto duraturo è una relazione che sopravvive al quinto appuntamento.




I





In una fresca serata d’inizio estate, mi dirigo verso la macchina che ho parcheggiato non lontano.  E’ un venerdì sera, la settimana lavorativa si è finalmente conclusa e non ho programmi per il resto della giornata, se non quello di intrattenere una platonica  liaison col divano del mio soggiorno. Pur non avendo una donna con la quale godermi un casalingo week-end, mi sento contento. E’ un brutto segno?
Mi soffermo ad osservare la variegata umanità che mi circonda, figlia sempre più della fretta e sempre meno disposta a fermarsi e pensare. Forse perché pensare comporta sempre un certo rischio o, forse, perché chi si attarda può dare l’impressione di non sapere ciò che vuole dalla vita.  
Mia madre, ogni volta che da ragazzo mi vedeva gironzolare per casa (fatto che accadeva di sovente), mi toccava la fronte e mi faceva un interrogatorio degno di Jessica Fletcher, chiamandomi il suo povero figlio. Mio padre, invece, mi guardava per un istante negli occhi, mi dava una pacca sulla spalla e mi allungava cinque mila lire. Sarò sempre grato a mio padre per la sua concretezza, nonché per quelle banconote che, oltre a farmi venire il buon umore, mi facevano sentire subito meno annoiato.
Quando tre anni fa comunicai che avevo preso la decisione di andare a vivere da solo, mia madre finse uno svenimento e pianse per due giorni. Continuava a chiedermi “Ma cosa ti ho fatto?”, e a niente servirono le mie rassicurazioni sul motivo del trasferimento, cioè un lavoro stabile e il desiderio di affrontare da solo i problemi dalla vita di tutti i giorni. Tralasciavo volutamente la motivazione principale, cioè quella di recidere un cordone ombelicale, che se a vent’anni può ancora farti piacere, a trenta ti opprime come una coperta di lana ad agosto. Comunque, lei la visse come un fallimento personale e quando mi trasferii non mi chiamò per un po’. Mio padre, che aveva appoggiato da subito la mia decisione, disse che successivamente al mio trasferimento aveva iniziato a dare a lui le responsabilità del mio “gesto avventato”. Mi chiamò dopo due giorni, che per lei era stato un tempo geologico, dicendomi che sicuramente stavo mangiando male e che mi avrebbe portato “qualcosina”. Arrivò dopo mezz’ora, con due borse frigo piene d’ogni sorta di pietanze, come se avessi dovuto resistere alla peggiore carestia degli ultimi mille anni. Il suo tentativo di mantenere un controllo almeno sul mio intestino (se non sulla mia intera esistenza) diventò per lei fondamentale. Si sentiva così ancora “utile a qualcosa”, mi disse. Da quel giorno, a cadenza periodica, mi rifornì d’ogni ben di Dio.
Durante la prima visita alla nuova casa fece un giro veloce, tirando su col naso ogni volta che entrava in un ambiente e nettandosi continuamente gli angoli degli occhi come se stesse partecipando alle esequie di un congiunto. Poi mi abbracciò disperata, quasi dovessi partire in missione di pace nel Medio Oriente, e mi lasciò senza una parola, ma solo con un mucchietto di fazzoletti usati sul tavolo. Dopo poche ore telefonò. Era al settimo cielo perché aveva visto un “graziosissimo” comodino fatto apposta per la mia stanza da letto.   

Mentre cerco di evitare con perizia il frutto di escrementi canini dalle forme e consistenze più varie, il cellulare mi avverte che qualcuno mi ha spedito un messaggio. Controllo con curiosità e vedo che si tratta di mia sorella Angela.
Il messaggio dice: “….. Dario, se puoi…. passa a casa…… è urgente……. devo parlarti subito…..”.
L’abuso dei puntini di sospensione, usati da molti per aumentare l’enfasi del pensiero, mi ha sempre fatto pensare ad un gregge di pecore passato da poco. Poco importa se, come riporta ogni grammatica italiana che si rispetti, i puntini di sospensione sono solo tre. Accade sempre che qualcuno, forse per sentimenti agro-pastorali, voglia convincersi che la matematica è un’opinione e che melius abundare quam deficere.
Il tono del messaggio ottiene lo scopo precipuo di preoccuparmi e far sparire il buon umore da fine settimana. Soprapensiero, interrompo il mio slalom (degno di un Alberto Tomba ai tempi d’oro) e, solo fortuitamente, evito all’ultimo secondo una mini-scultura futuristica, opera incompresa di un cane dalle dimensioni sicuramente superiori alla media.
 Angela non è il tipo che utilizza parole come “è urgente” o “devo parlarti subito”, se non esiste una più che valida ragione.
Rispondo al suo sms digitando “arrivo”, ma finisco per digitare “aprivo”, dovendo far attenzione a dove metto i piedi, perché non sono convinto che la fortuna s’incontri, così, per terra.
Mille pensieri si accavallano, alla ricerca di una spiegazione a quelle parole che, in mezzo ad una sfilza di palline di sterco di pecora, m’inducono a pensare che molto probabilmente sarà una faccenda di merda. Fondamentalmente io sono un ottimista, anche se talvolta alcuni segnali insignificanti mi fanno vedere il bicchiere mezzo vuoto e spesso con qualcosa che galleggia.
Raggiunta la mia auto, salgo e metto in moto. Per fortuna non sono troppo distante da casa sua e, con un tarlo fastidioso nel cervello percorro la Via Scano, raggiungendo la mia destinazione in poco più di cinque minuti. Vorrei fermarmi a comprare qualcosa per cena da Ramones, una rosticceria fantastica non lontano da qui, ma per ora devo soprassedere e dirigermi verso casa di Angela.
Parcheggio proprio davanti al portone del mega-condominio in cui vive mia sorella e in un baleno mi trovo davanti al citofono. Suono  e subito il portoncino si apre, senza che nessuno chieda “Chi è?”. E’ evidente che sono atteso.
Salgo di corsa due rampe di scale e trovo mia sorella sulla porta, sorridente. Beh, se sorride non deve essere niente di grave. Magari è una bella notizia e il bicchiere è mezzo pieno con niente che galleggia.
-Mamma te ne ha combinato un’altra…- mi dice seria, ma non troppo. - E questa volta ha superato se stessa.
-Merda.- esclamo e trovo così conferma alle mie prime supposizioni. Poi mi guardo intorno per paura che nei paraggi ci sia Luca, mio nipote, le cui tenere orecchie non dovrebbero ancora scoprire l’arte antica della sintesi.
- E’ in camera sua che gioca.- mi rasserena Angela, che capisce al volo il mio timore.
-Marta?- chiedo e allungo il collo, alla ricerca dell’ultima arrivata.
Mia sorella chiude la porta e m’indica una carrozzina nella penombra. - Nel mondo dei sogni.
-Beata lei. Filippo? 
-Assente giustificato.
Mi dirigo verso il divano e, invece di sedermi, mi sdraio bello lungo. Chiudo gli occhi e sospiro. Il buio mi rilassa e consente di concentrarmi con un basso consumo d’energia. Adoro tutti i luoghi bui, andare al cinema, guardare la tv a luci spente. Anche in bagno entro a luci spente e da ragazzi Angela mi chiamava Gugliemo Tell. Qualcosa centravo alla perfezione, ma non erano mele.
-Sono tutto orecchi. - dichiaro.
-Credimi, ho cercato in tutti i modi di dissuaderla, ma non c’è stato niente da fare…- tergiversa Angela.
-E…?
-E’ stato impossibile farle cambiare idea…
-Non mi piacciono le morti lente. Spara.
-Dunque, mamma… nostra madre…
-Sì, so chi è.
-Ti ha organizzato un appuntamento al buio!
Il buio mi piace, anche la penombra non è male. Le parole di mia sorella hanno però la stessa efficacia di un flash sparato senza preavviso, sento un cazzotto nello stomaco e la bocca improvvisamente asciutta. Mi metto a sedere e guardo Angela disorientato.
-Cosa?
-Mamma ti ha organizzato…-ricomincia lei.
-Era una domanda retorica… Non credo alle mie orecchie. Un appuntamento al buio? In che senso?
-Nell’unico senso possibile: ti ha organizzato un appuntamento con una sconosciuta, che pare sia la donna perfetta per te.
-E da quando in qua mia madre conosce Elisabetta Canalis?
-Non scherzare, guarda che dico sul serio.
Mi alzo e comincio a girare attorno al divano, lasciandomi ipnotizzare dagli arabeschi del tappeto persiano. Sono senza parole. Sono basito, allibito, sbigottito e sgomento. Fin’ora si era limitata ad illustrarmi il suo punto di vista sulla questione, ad elencarmi gli innumerevoli e indiscussi vantaggi della vita di coppia, ad elencarmi le motivazioni più disparate che avrebbero dovuto convincermi che due è meglio di uno e che quello che mancava nella mia casa era proprio un tocco femminile. Però mai aveva osato intromettersi fino a questo punto.
-Dai, siediti o mi consumi il tappeto…
-Dimmi che è uno scherzo. Adesso esce Filippo con una telecamera, vero? - chiedo speranzoso fissando mia sorella, che mi fissa a sua volta, con lo sguardo accondiscendente che si riserva ai malati di mente.
-E’ uno scherzo, vero?- ripeto ormai senza troppa speranza.
-No, non è uno scherzo. - Mi conferma e annuisce, anche se non so se lo fa perché è d’accordo con me oppure perché teme una mia reazione inconsulta e non vuole contraddirmi.
 Mi lascio andare di peso sul divano. Di nuovo il bicchiere mezzo vuoto, con qualcosa che galleggia, e stavolta è qualcosa di molto grosso.
-Senti, Dario, al posto tuo non darei troppo peso alla faccenda. Lo sai com’é fatta mamma, quando si mette in testa una cosa! Mi ha chiamato un’ora fa al settimo cielo… Pare sia la figlia di una sua carissima amica, che si è trasferita qui da poco. Non conosce nessuno e a lei è sembrata una buona idea.
Osservo mia sorella, perché qualcosa comincia a sfuggirmi in tutta questa situazione. Mi viene in mente uno di quei salotti muliebri  che mia madre frequenta, e dove, con lo stesso ritmo vorace, s’ingurgitano tramezzini e vite altrui.
-Magari non sarà così male, dopotutto. - conclude e mi poggia una mano sulla spalla.
Io guardo la mano, poi il suo volto. Il suo tono non mi convince per niente e mentre cerco di dare una risposta ai miei dubbi, noto la sua espressione, la stessa che da bambini aveva quando faceva ricadere su di me la responsabilità di qualcosa che aveva commesso lei. Senso di colpa. Improvvisamente il buio è squarciato dal lampo dell’intuizione.
-Tu sei d’accordo con mamma! Tu sei d’accordo con lei!
-Penso solo che tu non abbia niente da perdere…- dice osservandosi la vera d’oro nella mano sinistra e non osando sostenere il mio sguardo. - Chissà, potrebbe anche rivelarsi una piacevole occasione, una nuova esperienza…
Mi passo le mani tra i capelli e mi alzo. La guardo in cagnesco e, se potessi, le ringhierei contro.
-Non pensavo che l’avresti presa così male, sai?- mi dice turbata, guardandomi come se non mi riconoscesse.
Se fossi un cane ringhierei, se fossi un elefante barrirei e se fossi un leone ruggirei. Evidentemente però sono uno stronzo, perché  la strozzerei. Mi sento come se l’intero regno animale avesse espletato le sue funzioni corporali proprio sopra il sottoscritto, con tutto il posto che c’era a disposizione. 
-Comunque, ti ripeto, prendila come un’esperienza diversa…- incalza mia sorella.
-Diversa da cosa?
-Sai cosa intendo. Che io sappia, non stai frequentando nessuno e di conseguenza sei libero…
-Libero di uscire con chi voglio, non con chi vuole nostra madre!
-Dario, sai che ti voglio bene, ma ultimamente la tua vita sentimentale fa un po’ pena!- esclama, spazientita.
-Grazie! E se mi odiavi cosa facevi?
-Ma che ti costa?- domanda, quasi seccata.
Se continuo ad oppormi é capace di chiedermi se sono diventato gay. Dubbio che in passato ha sfiorato anche mia madre, seccata solo di aver perso del tempo pensando al target sbagliato.
-Ti va un gelato?- mi chiede, all’improvviso, cambiando prontamente discorso.-  Così chiamo Luca e lo mangiamo insieme. Magari ti schiarirà le idee e troverai un lato positivo…
-Non sapevo che la peste bubbonica avesse un lato positivo, e comunque per come sto ora preferirei un Whisky.
-Sai che non ci sono alcolici in casa.
-Allora vada per il gelato.
Non si è mai sentito di nessuno che abbia affogato le preoccupazioni nel gelato, ma mio cognato e mia sorella sono completamente astemi e quindi mi tocca rimandare l’annegamento. Angela si alza e sparisce nell’altra stanza, mentre sento che informa Luca della mia presenza.
Rimango solo, e pare che sia proprio questo che non va giù alle donne della mia famiglia. Certo, ultimamente e solo ultimamente, ammetto che la mia vita sentimentale non appaia particolarmente movimentata, ma è pur sempre la mia vita, e se c’è qualcuno che la deve trasformare in uno scatenato ballo di Sant’Antonio, quello dovrei essere io.

Non ho il tempo di ragionare oltre sulla questione, perché dopo un minuto arriva mio nipote con due cornetti gelati. Me ne porge uno, mentre la sua piccola lingua rosa sta già tormentando l’altro.
-Ciao zio, questo e per te.
Prendo il gelato e ce ne stiamo lì, in silenzio, ad assaporare i nostri coni. Stare con mio nipote mi fa sempre piacere, ma in questa assoluta calma e tranquillità, trovo il tutto estremamente catartico. Ogni tanto ci guardiamo, ma le parole sono di troppo mentre ognuno, con la sua tecnica, cerca di avere il sopravvento sulla crema bianca e fredda. Mangiare il gelato è una filosofia, più che un mero atto alimentare. C’è chi lo consuma lentamente, asportandone poco per volta, quasi a voler prolungare il più possibile quel piacere. C’è chi fa fuori il cono a morsi, masticando cialda, nocciole e crema assieme. E, infine, ci sono quelli che iniziano dal basso e aspirano, come vampiri, il molle contenuto, gettando via la cialda.
Io e mio nipote apparteniamo al primo gruppo, gli esteti della cremeria. Ci godiamo l’intero processo dall’inizio alla fine,    mettendo in azione il muscolo mobilissimo. Luca è solo un po’ più lento di me a causa della giovane età, ma la stoffa c’è e farà strada.
Dopo un tempo ragionevole, finalmente abbiamo avuto la meglio sul refrigerante interludio, ed è giunta l’ora delle parole.
-Come ti va?- chiedo io.
-Va.- risponde lui - E a te come va?
-Va.
Non v’è ombra di dubbio che noi uomini conosciamo l’arte suprema della sintesi, totalmente sconosciuta alle donne. Loro, infatti, avrebbero detto “Carissima! Come stai bene! E da un po’ che non ti vedo… Come vanno le cose?”, “Ah, mia cara! Sapessi… Ho avuto una giornata di quelle! Guarda: proprio da dimenticare! E tu cosa mi racconti? Ti trovo in forma, sai?”, “Grazie! Non mi posso lamentare, in effetti mi sento proprio bene in questo periodo, nonostante anch’io abbia i miei problemi…”, ecc.
Io e mio nipote ci capiamo con uno sguardo, proprio come accade con mio padre. Se un domani dovessi avere un figlio maschio, lo vorrei esattamente come lui.
-Non fidarti mai delle donne.- gli dico e subito mi pento. Forse, in un bambino di quattro anni, un’affermazione del genere potrebbe compromettere qualche equilibrio futuro.
Lui mi osserva attentamente, con gli occhi spalancati, attraverso due lenti incorniciate da una montatura azzurrina.
-Promettimi che quando sarai grande non permetterai a nessuna donna di programmarti l’esistenza. Madre, sorella o moglie che sia. Promettilo.
Dovevo concludere il mio pensiero. Lasciare il concetto a metà potrebbe essere più deleterio che aprire troppo presto una mente, e lui sembra proprio che ci stia riflettendo su, perbacco.
-Prometto.- risponde infine.
-Bene, sei un bravo ragazzo. O forse solo ben educato.

Ricordo come fosse ieri, quando vidi Luca per la prima volta. Non ho idea di cosa possa voler dire quando ti nasce un figlio, ma la nascita di mio nipote fu un fatto che mi coinvolse fin dal primo giorno. Arrivai in clinica con un orso di dimensioni esagerate che faticai non poco a trovare. Una corpulenta ostetrica mi bloccò all’ingresso del reparto maternità, con un palmo aperto, autoritaria e solerte come un vigile urbano.
-Quel coso non può entrare. - disse secca.  - Non poteva pensare a qualcosa di più piccolo?
Probabilmente avrei potuto, ma la gioia mi aveva ottenebrato il cervello.
-In effetti ero indeciso tra Teddy e una lattina di birra…
-Spiritoso!- mi zittì lei, che aveva nel frattempo poggiato le mani sui fianchi. - Lo può parcheggiare qui.
Mi indicò un angolo e l’espressione del suo volto non ammetteva repliche. Così, deposi con gentilezza il mio amico e gli strizzai l’occhio.
-Coraggio, Teddy. Se vuoi, per passare il tempo, puoi chiacchierare con la signorina. Magari trovate qualcosa in comune…
-Ho cose più importanti da fare che intrattenere i pupazzi!
Probabilmente anche Teddy avrebbe detto lo stesso. Ma quando mi allontanai nel corridoio, lo vidi imperturbabile e fui certo che non avrebbe sentito la manca della gentildonna.
Entrando nella stanza in cui stava mia sorella, vidi un gruppetto di familiari che si accalcavano attorno alla minuscola culla. Una faccina tonda e rossa, due braccine che si agitavano, due piedini imprigionati in calzine bianche.
-Cucci Cucci! Tesoruccio….
 -Pisillotto bello-bello! Bello, lui!
-Brrrr…. Ciciciiciicicii….. bello di zia, lui!- pizzicotti alle guance e gratatina ai piedini.
Cercai di accostarmi alla culla, ma la barriera umana di parenti me lo impedì. Neanche un capo di governo fu più inavvicinabile di mio nipote in quel momento.
-Pi-pi-pi-pi-pi!….mu-mu-mu-mu-mu!… Bello dello zio!
-E questi piedini grassi-grassi, di chi sono? Eh? Ma della zia!
La zia in questione aveva dei piedi che sembravano due zamponi.
-E il culetto bello? E’ dello zio, il culetto bello!
Osservo il fondoschiena di mio zio e considero il suo un pio desiderio.
-E il pisellino? Il pisellino bello? E’ della zia!
E no, la zia col pisellino, no! Ma non faccio in tempo a protestare, che Luca inaspettatamente rigurgita un po’ di latte. Mia sorella si fa largo e prende in braccio l’erede. So che rigurgitare è un incidente molto frequente nei bambini piccoli, spesso a causa della difficoltà che incontrano nel digerire il latte. Ma in quella precipua circostanza, ritenni che Luca ne avesse ben donde e che il vomito fosse stato causato dagli abominevoli commenti dei miei parenti, difficili anch’essi da digerire. Forse più del latte.  

Il rientro di mia sorella nella stanza interrompe il mio viaggio nel tempo. La piccola ha cominciato ad agitarsi nella culla.
-Sicuramente ha fame…
-Senti…Quand’è che sarebbe quest’appuntamento?- chiedo, ormai quasi sconfitto, accarezzando la morbida testolina castana accanto a me.
-Domani…- e senza darmi tempo di prendere fiato per imprecare, aggiunge- Guarda, è meglio così. Ti togli il dente malato e non ci pensi più.
-Beh, che dire? Se la metti così… Qualunque donna sarebbe lieta di essere paragonata ad un dente cariato. L’unica speranza che mi rimane, a questo punto, è una lunga anestesia.