venerdì 27 agosto 2010

Mai dire quattro, di Matteo Saltori

Ho avuto il primo attacco di diarrea il quarto o il quinto giorno.
Ero stremato per il caldo. Era fine maggio e la temperatura oscillava fra i 25 e i 30 gradi. Umidi per giunta.
Sommiamoci gli effetti deflagranti del fuso orario. Dormivo di giorno e stavo sveglio la notte.
Non mi ero ancora abituato allo sbalzo del jet lag. Passavo le giornate a ciondolare. Il mio corpo non capiva perché di notte dovesse esserci tutta quella luce. E di giorno, il buio!
Ho provato a spiegarglielo, ma non ho ottenuto che scarsi risultati. Ero settato sull’orario italiano. E così sarei rimasto per quasi un intero mese.
Niente di strano che mi venisse un po’ di cagotto!
Al terzo giorno di diarrea comincia a venirmi il sospetto di essere stato poco previdente. Non ero mai stato all’estero. A parte una gita scolastica a Budapest, in quarta liceo. Ma non era poi così estero. Era pur sempre Europa in fondo.
Sarà l’acqua? Sarà qualcosa nel cibo? Xiao, nonostante gli anni lontana da casa, non risente di nulla. Nemmeno del fuso orario sballato.
Già dalla prima mattina si alza pimpante e comincia a divorare una zuppa di spaghetti di riso in brodo con contorno di fagiolini. Caldi.
Alle otto della mattina.
Il mio stomaco, uso alle colazioni italiane, comincia a reclamare tè e biscotti. O in alternativa, qualcosa di freddo. Tipo del gelato. Che purtroppo in Cina non esiste. Come non esistono i biscotti, e nemmeno il tè ultra zuccherato che vorrei io. Anche perché non esiste lo zucchero. O se esiste dev’essere un segreto di stato, ben celato in qualche bunker accessibile solo all’intellighenzia comunista. Non capisco perché se lo tengano stretto. Non mi sfiora neppure per un istante che un miliardo e mezzo di persone possa vivere senza abbondanti dosi di zucchero. Ci dev’essere qualcosa sotto. Un complotto governativo. Gli alieni. Atlantide.
La morale è che non ho trovato nulla in grado di dolcificare quell’acqua calda e verdina che loro chiamano tè. E che sarebbe il vero tè, intendiamoci. A differenza delle schifezze in bustina che beviamo noi.
Ma io ero ormai dannato dal consumismo occidentale e assuefatto senza scampo alle schifezze in bustina.
Il problema della colazione quindi si ripresentava tutte le mattine. Che mangiare?
C’erano gli avanzi della sera prima.
L’immancabile riso in bianco. Da non confondere con il nostro riso in bianco.
Se un cinese dice riso in bianco intende esattamente questo: riso e basta. Bollito, scotto, zuppo d’acqua e senza sale.
Poi i gamberetti fritti, carne di manzo in brodo, uova, qualche tipo di pesce. Verdura a volontà, meglio se bollita e in brodo. E il tofu.
C’era sempre del tofu che serpeggiava malefico in giro per la tavola.
Una mattina ho provato a chiedere latte e mi sono ritrovato con una scodella in mano, riempita fino all’orlo di un liquido bianco che sembrava proprio latte.
Era latte. Ma di tofu.
Credo di essermi anche sforzato di berlo tutto. Anche perché avevo quattro o cinque paia d’occhi che mi fissavano.
È buono? È buono?
Non ho più chiesto latte da quel giorno.
Gamberetti allo zenzero e maiale fritto come prima colazione?
Dai qua, ci penso io!
Ma torniamo alla diarrea. Dopo essere rimasto vittima del mio intestino per tre giorni, decido di tirare fuori la mia scorta di enterogermina. La tenevo per le emergenze e quella lo era. D’altronde, quante volte mi doveva venire la diarrea in un mese?
Arrivati a questo punto, ingenuo non è la parola giusta per descrivermi. Ce n’è un’altra, un po’ più pesante. Ma siccome nutro ancora del vago rispetto per me stesso, non la userò in questo contesto.
Diciamo che ero un ottimista. Mi ero portato quattro fiale di enterogermina. Non quattro confezioni. Quattro fiale.
Una, due, tre. Quattro.
Per un mese intero.
Di solito me ne basta una per mettermi a posto. E così è stato.
Una al giorno. Per quattro giorni.
Sono stato anche quasi bene.
Il quinto giorno mangio, mi alzo, mi guardo intorno…mi sento un po’ a disagio, non capisco…poi la diga si schiude e io corro e mi catapulto dentro al cesso.
Faccio appena in tempo a sedermi che tutto quello che non era uscito in quei quattro giorni esce adesso. Violento e liquido.
Quando riemergo ho il volto scavato e sono più a secco di una pompa di benzina la domenica sera.
Allora ho capito che quattro non bastava.
È il numero della morte per di più. In cinese, quattro si pronuncia in modo simile alla parola morte. È il loro numero porta sfortuna, l’equivalente del nostro diciassette, sommato anche alla potenza del tredici.
Otto invece è un buon numero. Se ci fate caso, le olimpiadi in Cina iniziarono alle 8:00 dell’8 agosto dell’anno 2008.
Le otto, dell’otto dell’otto dell’otto.
Io invece avevo quattro enterogermine. Oltre al fatto che erano troppo poche (trenta sarebbe stato un numero più congruo), avevo anche scelto senza saperlo il numero porta sfiga cinese.
E qui si apre un interessante dibattito. Se io sono italiano e credo al diciassette, quando vado in Cina rimango influenzato dal numero quattro o continuo a essere tiranneggiato dalla potenza del diciassette? È il luogo che conta, la somma delle impressioni e delle credenze collettive, oppure il background culturale di provenienza è più forte?
Potevo sperare con il mio imprinting di sfidare la mente collettiva della superstizione cinese?
Non lo so. In verità non credo al diciassette e nemmeno al quattro. Ho creduto all’otto in passato e non ha funzionato. E sono nato il giorno tredici.
Anche il mio intestino era un agnostico. Quando qualcosa lo ha disturbato, che siano stati numeri, schifezze contenute nell’acqua o altro, non ci ha pensato due volte e si è ribellato.
Per tutto il mese. Un mese di diarrea.
Un mese a correre al gabinetto dalle sei volte al giorno in su.
Spesso perdevo il conto.
Peccato, forse avrei potuto vincere qualche record.
Ma sono cose a cui non pensi al momento.
In quel momento, ti sembra sempre che ci sia qualcosa di più urgente da fare.





2 commenti:

  1. il segno dei tempi che cambiano... alle scuole medie mi ricordo benissimo che nei temi mi piaceva riportare le mie esperienze reali... capitò che per ben due volte appresi delle notizie tragiche mentre defecavo al bagno e feci notare questa curiosa anomalia del "caso". Fui brutalmente redarguito dall'insegnante che, dopo aver letto ad alta voce le esperienze che sino a quel momento avevo ritenuto molto personali ed avermi esposto al pubblico ludibrio mi aveva fatto notare che a nessuno sarebbe mai interessato cosa facessi io al bagno...
    Fermo restando che ai miei genitori che bussavano regolarmente per farmi sbrigare probabilmente interessava, e che se non altro avevo suscitato l'ilarità generale in classe devo riconoscere che probabilmente aveva ragione.
    Adesso che però leggo questo racconto mi piacerebbe ritrovare la mia veccia insegnante di italiano e chiederle un parere... se non altro per avere il famoso "mezzo gaudio".
    Tralasciando le facezie lo trovo molto carino e divertente... sperando che non sia autobiografico ^_^

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  2. E' autobiografico. Chissà cosa avrebbe pensato la tua insegnante di gente come Charles Bukowski, ad esempio. Uno che parlava di sbronze, di scopate, di vomito. Ma se lo leggi è impossibile non restarne affascinati. Dopo 18 anni di militanza nel sistema scolastico italiano, ho imparato una triste verità: a scuola ti insegnano a studiare la letteratura, ma non a scriverla.
    Ti insegnano a scrivere un tema o una tesi, ma non a scrivere e basta. Con buona pace della tua insegnante delle medie...

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