venerdì 10 dicembre 2010

Appuntamento al buio, romanzo.





 
Premessa




Mia madre è certa di sapere quale sia la donna che fa al caso mio. Purtroppo è altrettanto certa che io non sarò in grado di accorgermi di questa creatura, destinata a me dai tempi dei tempi, che mi passerà accanto, incrociando la sua esistenza con la mia.
Per questo motivo, oltre che per tutta un’altra infinita e opinabile serie di ragioni, crede che io abbia assolutamente bisogno del suo aiuto: nel momento in cui la donna predestinata mi passerà accanto, lei (mia madre) sarà lì, pronta ad aprirmi gli occhi. “Nel caso in cui tu fossi distratto!”, ha aggiunto. “Distratto da cosa?” ho chiesto, temendo la risposta. “Da qualche altra donna che ti dovesse far perdere la testa!”, ha risposto. Avrei voluto ribadire che la donna giusta poteva essere l’altra, quella per la quale avessi perso la testa, ma mi sono mancate le parole e ho fatto finta di essere distratto. 
Dall’età della ragione, mia madre non ha mancato occasione per ripetermi la sua teoria sulla necessità di procreare. Il futuro della razza umana, dal suo punto di vista, pareva riposto esclusivamente in me, diciottenne allampanato, quasi fossi l’ultimo maschio rimasto sul pianeta Terra.
 Nella sua materna lungimiranza, lei ha sempre sostenuto che ognuno di noi abbia, da qualche parte nel mondo, un’unica, perfetta e sincronizzata anima gemella che vorrebbe essere trovata da quell’unico altro, mischiato tra miliardi di altri, che potrà rendere felice solo lei. Dunque, in qualche remota parte del mondo (ma molto probabilmente nella mia stessa città) si troverebbe la mia lei, perfetta per me come nessun’altra e capace di rendermi felice, aldilà d’ogni mia immaginazione.
Ma mi chiedo: cosa intende esattamente mia madre con nessun’altra? Pensavo che il vero amore fosse una questione di affinità elettive, sincronia d’intenti e progettualità comuni, che si costruiscono giorno per giorno nel confronto e nel dialogo.
Ma se mia madre ha ragione, ho praticamente una probabilità su un miliardo di trovarla.  E questo, in ogni cultura conosciuta, civilizzata o no, pre o post-industriale che sia, si chiama in un solo modo. Culo.
Dunque, quale percentuale di successo può avere una spedizione di ricerca che parte già con tali presupposti? Ha avuto più probabilità di riuscita Neil Armstrong quando, nel ’69, seppe che per lui era arrivato il momento di abbandonare l’atmosfera terrestre. In quella capsula non più grande di un Uovo di Pasqua, mentre osservava il pianeta Terra che si allontanava sempre più, forse anche lui pensava che il successo di quella missione era solo una questione di culo? La sostanziale differenza tra me e lui è che io non devo fare i conti con le aspettative del mondo intero, ma solo con quelle di mia madre, fatto che non mi da il minimo sollievo. Inoltre, spero vivamente che il giorno in cui incontrerò la donna della mia vita, mia madre sia sufficientemente lontana e, nel caso in cui dovessi essere distratto, potrei avere pure i miei buoni motivi. L’idea di una Grande Madre che mi osserva, pronta ad indirizzare le mie pulsioni amorose, mi renderebbe felice quanto una valanga che viaggia a 80 Km l’ora e che mi vuole baciare.
A onor del vero, però, devo riconoscere che  ogni volta che le ho fatto conoscere la ragazza con cui uscivo è stata capace di predirmi con preoccupante esattezza la durata del rapporto. Dunque i casi sono due: o lei, nella sua materna preveggenza, sa veramente di che donna ho bisogno, oppure mi porta iella. In linea di massima, tendo a pendere leggermente per la tesi della preveggenza (che mi sembra più rassicurante della possibilità di una madre iettatrice) e, di conseguenza, sono felice come un tacchino americano alla vigilia del Giorno del Ringraziamento.

Agli occhi di mia madre niente è cambiato negli ultimi sei lustri, né nel mio aspetto fisico, né nei miei costrutti mentali e il particolare che io abbia ormai trent’anni e non quattro, è assolutamente di secondaria importanza. Per lei non c’è alcuna differenza tra me e mio nipote Luca, che ha davvero quattro anni, e probabilmente è per questo che  continua a regalarmi t-shirt con i personaggi della Walt Disney. Ma chi dovrebbe essere la mia compagna ideale? Paperina?
La sua premura nei miei confronti è rimasta invariata da quando la mia bici aveva tre ruote dietro e una davanti. E’ inutile che a tavola io dica di non avere fame, lei sa meglio di me se ho fame o no, allora come oggi. Che io abbia sei anni o trenta pare non conti molto, perché (oggi come allora) solo lei sa ragguagliarmi sui miei bisogni primari. Ricordo ancora quando mi diceva: “fai pipì, prima di uscire”, poco importava se non ne avevo voglia; “dormi che hai sonno”, quando più me lo diceva e meno ci riuscivo; o la variante ”dormi, che arriva l’uomo nero”, pensiero che mi teneva con gli occhi sbarrati nel buio per ore; e ancora “vestiti pesante, perché poi ti ammali”, così sudavo e mi ammalavo davvero. “Non correre, perché cadi!”, concludeva la serie. Io mi giravo per rassicurarla e inciampavo. 
Tornando ai rapporti di coppia, al giorno d’oggi non è semplice trovare l’anima gemella, l’atra metà della mela, l’altro cuore dentro una capanna. Forse perché la mela è diventata transgenica e la capanna, simbolo di sicurezza e progettualità familiare da sempre, è piena di ipoteche e tende piuttosto a rassomigliare a quella del porcellino pigro, precaria, instabile e tristemente spazzata via dal Lupo cattivo, che non a caso è single pure lui.
Mario, mio caro amico, che ha vissuto gli anni del liceo transumando dalla casa della madre a quella del padre e viceversa, non si pone il problema, perché a detta sua non c’è alcun problema. Lui, cinico fino al midollo, è convinto che il successo di un rapporto non stia in ciò che si cerca in una donna, ma in cosa la donna cerchi e, cioè, quel piccolo cerchio sormontato da qualche migliaio d’euro in bagliori carboniferi, che ogni donna (che lo ammetta o no, a parer suo) brama fortemente. Marilyn Monroe docet.
Se si vuol far funzionare un rapporto, dice lui, il gioco sta tutto nel far credere alla fortunata di turno (quindi fortuna per poco) che presto, molto presto, il suo anulare verrà dolcemente appesantito, amorevolmente avvolto dal suo più recondito desiderio, promessa di un amore sempiterno.  Peccato che Mario non conosca il significato di questa parola, sia nel senso letterale che in quello traslato. Dipenderà anche dal fatto che è figlio di genitori separati, ma sempiterno, per lui, è una parola straniera e un rapporto duraturo è una relazione che sopravvive al quinto appuntamento.




I





In una fresca serata d’inizio estate, mi dirigo verso la macchina che ho parcheggiato non lontano.  E’ un venerdì sera, la settimana lavorativa si è finalmente conclusa e non ho programmi per il resto della giornata, se non quello di intrattenere una platonica  liaison col divano del mio soggiorno. Pur non avendo una donna con la quale godermi un casalingo week-end, mi sento contento. E’ un brutto segno?
Mi soffermo ad osservare la variegata umanità che mi circonda, figlia sempre più della fretta e sempre meno disposta a fermarsi e pensare. Forse perché pensare comporta sempre un certo rischio o, forse, perché chi si attarda può dare l’impressione di non sapere ciò che vuole dalla vita.  
Mia madre, ogni volta che da ragazzo mi vedeva gironzolare per casa (fatto che accadeva di sovente), mi toccava la fronte e mi faceva un interrogatorio degno di Jessica Fletcher, chiamandomi il suo povero figlio. Mio padre, invece, mi guardava per un istante negli occhi, mi dava una pacca sulla spalla e mi allungava cinque mila lire. Sarò sempre grato a mio padre per la sua concretezza, nonché per quelle banconote che, oltre a farmi venire il buon umore, mi facevano sentire subito meno annoiato.
Quando tre anni fa comunicai che avevo preso la decisione di andare a vivere da solo, mia madre finse uno svenimento e pianse per due giorni. Continuava a chiedermi “Ma cosa ti ho fatto?”, e a niente servirono le mie rassicurazioni sul motivo del trasferimento, cioè un lavoro stabile e il desiderio di affrontare da solo i problemi dalla vita di tutti i giorni. Tralasciavo volutamente la motivazione principale, cioè quella di recidere un cordone ombelicale, che se a vent’anni può ancora farti piacere, a trenta ti opprime come una coperta di lana ad agosto. Comunque, lei la visse come un fallimento personale e quando mi trasferii non mi chiamò per un po’. Mio padre, che aveva appoggiato da subito la mia decisione, disse che successivamente al mio trasferimento aveva iniziato a dare a lui le responsabilità del mio “gesto avventato”. Mi chiamò dopo due giorni, che per lei era stato un tempo geologico, dicendomi che sicuramente stavo mangiando male e che mi avrebbe portato “qualcosina”. Arrivò dopo mezz’ora, con due borse frigo piene d’ogni sorta di pietanze, come se avessi dovuto resistere alla peggiore carestia degli ultimi mille anni. Il suo tentativo di mantenere un controllo almeno sul mio intestino (se non sulla mia intera esistenza) diventò per lei fondamentale. Si sentiva così ancora “utile a qualcosa”, mi disse. Da quel giorno, a cadenza periodica, mi rifornì d’ogni ben di Dio.
Durante la prima visita alla nuova casa fece un giro veloce, tirando su col naso ogni volta che entrava in un ambiente e nettandosi continuamente gli angoli degli occhi come se stesse partecipando alle esequie di un congiunto. Poi mi abbracciò disperata, quasi dovessi partire in missione di pace nel Medio Oriente, e mi lasciò senza una parola, ma solo con un mucchietto di fazzoletti usati sul tavolo. Dopo poche ore telefonò. Era al settimo cielo perché aveva visto un “graziosissimo” comodino fatto apposta per la mia stanza da letto.   

Mentre cerco di evitare con perizia il frutto di escrementi canini dalle forme e consistenze più varie, il cellulare mi avverte che qualcuno mi ha spedito un messaggio. Controllo con curiosità e vedo che si tratta di mia sorella Angela.
Il messaggio dice: “….. Dario, se puoi…. passa a casa…… è urgente……. devo parlarti subito…..”.
L’abuso dei puntini di sospensione, usati da molti per aumentare l’enfasi del pensiero, mi ha sempre fatto pensare ad un gregge di pecore passato da poco. Poco importa se, come riporta ogni grammatica italiana che si rispetti, i puntini di sospensione sono solo tre. Accade sempre che qualcuno, forse per sentimenti agro-pastorali, voglia convincersi che la matematica è un’opinione e che melius abundare quam deficere.
Il tono del messaggio ottiene lo scopo precipuo di preoccuparmi e far sparire il buon umore da fine settimana. Soprapensiero, interrompo il mio slalom (degno di un Alberto Tomba ai tempi d’oro) e, solo fortuitamente, evito all’ultimo secondo una mini-scultura futuristica, opera incompresa di un cane dalle dimensioni sicuramente superiori alla media.
 Angela non è il tipo che utilizza parole come “è urgente” o “devo parlarti subito”, se non esiste una più che valida ragione.
Rispondo al suo sms digitando “arrivo”, ma finisco per digitare “aprivo”, dovendo far attenzione a dove metto i piedi, perché non sono convinto che la fortuna s’incontri, così, per terra.
Mille pensieri si accavallano, alla ricerca di una spiegazione a quelle parole che, in mezzo ad una sfilza di palline di sterco di pecora, m’inducono a pensare che molto probabilmente sarà una faccenda di merda. Fondamentalmente io sono un ottimista, anche se talvolta alcuni segnali insignificanti mi fanno vedere il bicchiere mezzo vuoto e spesso con qualcosa che galleggia.
Raggiunta la mia auto, salgo e metto in moto. Per fortuna non sono troppo distante da casa sua e, con un tarlo fastidioso nel cervello percorro la Via Scano, raggiungendo la mia destinazione in poco più di cinque minuti. Vorrei fermarmi a comprare qualcosa per cena da Ramones, una rosticceria fantastica non lontano da qui, ma per ora devo soprassedere e dirigermi verso casa di Angela.
Parcheggio proprio davanti al portone del mega-condominio in cui vive mia sorella e in un baleno mi trovo davanti al citofono. Suono  e subito il portoncino si apre, senza che nessuno chieda “Chi è?”. E’ evidente che sono atteso.
Salgo di corsa due rampe di scale e trovo mia sorella sulla porta, sorridente. Beh, se sorride non deve essere niente di grave. Magari è una bella notizia e il bicchiere è mezzo pieno con niente che galleggia.
-Mamma te ne ha combinato un’altra…- mi dice seria, ma non troppo. - E questa volta ha superato se stessa.
-Merda.- esclamo e trovo così conferma alle mie prime supposizioni. Poi mi guardo intorno per paura che nei paraggi ci sia Luca, mio nipote, le cui tenere orecchie non dovrebbero ancora scoprire l’arte antica della sintesi.
- E’ in camera sua che gioca.- mi rasserena Angela, che capisce al volo il mio timore.
-Marta?- chiedo e allungo il collo, alla ricerca dell’ultima arrivata.
Mia sorella chiude la porta e m’indica una carrozzina nella penombra. - Nel mondo dei sogni.
-Beata lei. Filippo? 
-Assente giustificato.
Mi dirigo verso il divano e, invece di sedermi, mi sdraio bello lungo. Chiudo gli occhi e sospiro. Il buio mi rilassa e consente di concentrarmi con un basso consumo d’energia. Adoro tutti i luoghi bui, andare al cinema, guardare la tv a luci spente. Anche in bagno entro a luci spente e da ragazzi Angela mi chiamava Gugliemo Tell. Qualcosa centravo alla perfezione, ma non erano mele.
-Sono tutto orecchi. - dichiaro.
-Credimi, ho cercato in tutti i modi di dissuaderla, ma non c’è stato niente da fare…- tergiversa Angela.
-E…?
-E’ stato impossibile farle cambiare idea…
-Non mi piacciono le morti lente. Spara.
-Dunque, mamma… nostra madre…
-Sì, so chi è.
-Ti ha organizzato un appuntamento al buio!
Il buio mi piace, anche la penombra non è male. Le parole di mia sorella hanno però la stessa efficacia di un flash sparato senza preavviso, sento un cazzotto nello stomaco e la bocca improvvisamente asciutta. Mi metto a sedere e guardo Angela disorientato.
-Cosa?
-Mamma ti ha organizzato…-ricomincia lei.
-Era una domanda retorica… Non credo alle mie orecchie. Un appuntamento al buio? In che senso?
-Nell’unico senso possibile: ti ha organizzato un appuntamento con una sconosciuta, che pare sia la donna perfetta per te.
-E da quando in qua mia madre conosce Elisabetta Canalis?
-Non scherzare, guarda che dico sul serio.
Mi alzo e comincio a girare attorno al divano, lasciandomi ipnotizzare dagli arabeschi del tappeto persiano. Sono senza parole. Sono basito, allibito, sbigottito e sgomento. Fin’ora si era limitata ad illustrarmi il suo punto di vista sulla questione, ad elencarmi gli innumerevoli e indiscussi vantaggi della vita di coppia, ad elencarmi le motivazioni più disparate che avrebbero dovuto convincermi che due è meglio di uno e che quello che mancava nella mia casa era proprio un tocco femminile. Però mai aveva osato intromettersi fino a questo punto.
-Dai, siediti o mi consumi il tappeto…
-Dimmi che è uno scherzo. Adesso esce Filippo con una telecamera, vero? - chiedo speranzoso fissando mia sorella, che mi fissa a sua volta, con lo sguardo accondiscendente che si riserva ai malati di mente.
-E’ uno scherzo, vero?- ripeto ormai senza troppa speranza.
-No, non è uno scherzo. - Mi conferma e annuisce, anche se non so se lo fa perché è d’accordo con me oppure perché teme una mia reazione inconsulta e non vuole contraddirmi.
 Mi lascio andare di peso sul divano. Di nuovo il bicchiere mezzo vuoto, con qualcosa che galleggia, e stavolta è qualcosa di molto grosso.
-Senti, Dario, al posto tuo non darei troppo peso alla faccenda. Lo sai com’é fatta mamma, quando si mette in testa una cosa! Mi ha chiamato un’ora fa al settimo cielo… Pare sia la figlia di una sua carissima amica, che si è trasferita qui da poco. Non conosce nessuno e a lei è sembrata una buona idea.
Osservo mia sorella, perché qualcosa comincia a sfuggirmi in tutta questa situazione. Mi viene in mente uno di quei salotti muliebri  che mia madre frequenta, e dove, con lo stesso ritmo vorace, s’ingurgitano tramezzini e vite altrui.
-Magari non sarà così male, dopotutto. - conclude e mi poggia una mano sulla spalla.
Io guardo la mano, poi il suo volto. Il suo tono non mi convince per niente e mentre cerco di dare una risposta ai miei dubbi, noto la sua espressione, la stessa che da bambini aveva quando faceva ricadere su di me la responsabilità di qualcosa che aveva commesso lei. Senso di colpa. Improvvisamente il buio è squarciato dal lampo dell’intuizione.
-Tu sei d’accordo con mamma! Tu sei d’accordo con lei!
-Penso solo che tu non abbia niente da perdere…- dice osservandosi la vera d’oro nella mano sinistra e non osando sostenere il mio sguardo. - Chissà, potrebbe anche rivelarsi una piacevole occasione, una nuova esperienza…
Mi passo le mani tra i capelli e mi alzo. La guardo in cagnesco e, se potessi, le ringhierei contro.
-Non pensavo che l’avresti presa così male, sai?- mi dice turbata, guardandomi come se non mi riconoscesse.
Se fossi un cane ringhierei, se fossi un elefante barrirei e se fossi un leone ruggirei. Evidentemente però sono uno stronzo, perché  la strozzerei. Mi sento come se l’intero regno animale avesse espletato le sue funzioni corporali proprio sopra il sottoscritto, con tutto il posto che c’era a disposizione. 
-Comunque, ti ripeto, prendila come un’esperienza diversa…- incalza mia sorella.
-Diversa da cosa?
-Sai cosa intendo. Che io sappia, non stai frequentando nessuno e di conseguenza sei libero…
-Libero di uscire con chi voglio, non con chi vuole nostra madre!
-Dario, sai che ti voglio bene, ma ultimamente la tua vita sentimentale fa un po’ pena!- esclama, spazientita.
-Grazie! E se mi odiavi cosa facevi?
-Ma che ti costa?- domanda, quasi seccata.
Se continuo ad oppormi é capace di chiedermi se sono diventato gay. Dubbio che in passato ha sfiorato anche mia madre, seccata solo di aver perso del tempo pensando al target sbagliato.
-Ti va un gelato?- mi chiede, all’improvviso, cambiando prontamente discorso.-  Così chiamo Luca e lo mangiamo insieme. Magari ti schiarirà le idee e troverai un lato positivo…
-Non sapevo che la peste bubbonica avesse un lato positivo, e comunque per come sto ora preferirei un Whisky.
-Sai che non ci sono alcolici in casa.
-Allora vada per il gelato.
Non si è mai sentito di nessuno che abbia affogato le preoccupazioni nel gelato, ma mio cognato e mia sorella sono completamente astemi e quindi mi tocca rimandare l’annegamento. Angela si alza e sparisce nell’altra stanza, mentre sento che informa Luca della mia presenza.
Rimango solo, e pare che sia proprio questo che non va giù alle donne della mia famiglia. Certo, ultimamente e solo ultimamente, ammetto che la mia vita sentimentale non appaia particolarmente movimentata, ma è pur sempre la mia vita, e se c’è qualcuno che la deve trasformare in uno scatenato ballo di Sant’Antonio, quello dovrei essere io.

Non ho il tempo di ragionare oltre sulla questione, perché dopo un minuto arriva mio nipote con due cornetti gelati. Me ne porge uno, mentre la sua piccola lingua rosa sta già tormentando l’altro.
-Ciao zio, questo e per te.
Prendo il gelato e ce ne stiamo lì, in silenzio, ad assaporare i nostri coni. Stare con mio nipote mi fa sempre piacere, ma in questa assoluta calma e tranquillità, trovo il tutto estremamente catartico. Ogni tanto ci guardiamo, ma le parole sono di troppo mentre ognuno, con la sua tecnica, cerca di avere il sopravvento sulla crema bianca e fredda. Mangiare il gelato è una filosofia, più che un mero atto alimentare. C’è chi lo consuma lentamente, asportandone poco per volta, quasi a voler prolungare il più possibile quel piacere. C’è chi fa fuori il cono a morsi, masticando cialda, nocciole e crema assieme. E, infine, ci sono quelli che iniziano dal basso e aspirano, come vampiri, il molle contenuto, gettando via la cialda.
Io e mio nipote apparteniamo al primo gruppo, gli esteti della cremeria. Ci godiamo l’intero processo dall’inizio alla fine,    mettendo in azione il muscolo mobilissimo. Luca è solo un po’ più lento di me a causa della giovane età, ma la stoffa c’è e farà strada.
Dopo un tempo ragionevole, finalmente abbiamo avuto la meglio sul refrigerante interludio, ed è giunta l’ora delle parole.
-Come ti va?- chiedo io.
-Va.- risponde lui - E a te come va?
-Va.
Non v’è ombra di dubbio che noi uomini conosciamo l’arte suprema della sintesi, totalmente sconosciuta alle donne. Loro, infatti, avrebbero detto “Carissima! Come stai bene! E da un po’ che non ti vedo… Come vanno le cose?”, “Ah, mia cara! Sapessi… Ho avuto una giornata di quelle! Guarda: proprio da dimenticare! E tu cosa mi racconti? Ti trovo in forma, sai?”, “Grazie! Non mi posso lamentare, in effetti mi sento proprio bene in questo periodo, nonostante anch’io abbia i miei problemi…”, ecc.
Io e mio nipote ci capiamo con uno sguardo, proprio come accade con mio padre. Se un domani dovessi avere un figlio maschio, lo vorrei esattamente come lui.
-Non fidarti mai delle donne.- gli dico e subito mi pento. Forse, in un bambino di quattro anni, un’affermazione del genere potrebbe compromettere qualche equilibrio futuro.
Lui mi osserva attentamente, con gli occhi spalancati, attraverso due lenti incorniciate da una montatura azzurrina.
-Promettimi che quando sarai grande non permetterai a nessuna donna di programmarti l’esistenza. Madre, sorella o moglie che sia. Promettilo.
Dovevo concludere il mio pensiero. Lasciare il concetto a metà potrebbe essere più deleterio che aprire troppo presto una mente, e lui sembra proprio che ci stia riflettendo su, perbacco.
-Prometto.- risponde infine.
-Bene, sei un bravo ragazzo. O forse solo ben educato.

Ricordo come fosse ieri, quando vidi Luca per la prima volta. Non ho idea di cosa possa voler dire quando ti nasce un figlio, ma la nascita di mio nipote fu un fatto che mi coinvolse fin dal primo giorno. Arrivai in clinica con un orso di dimensioni esagerate che faticai non poco a trovare. Una corpulenta ostetrica mi bloccò all’ingresso del reparto maternità, con un palmo aperto, autoritaria e solerte come un vigile urbano.
-Quel coso non può entrare. - disse secca.  - Non poteva pensare a qualcosa di più piccolo?
Probabilmente avrei potuto, ma la gioia mi aveva ottenebrato il cervello.
-In effetti ero indeciso tra Teddy e una lattina di birra…
-Spiritoso!- mi zittì lei, che aveva nel frattempo poggiato le mani sui fianchi. - Lo può parcheggiare qui.
Mi indicò un angolo e l’espressione del suo volto non ammetteva repliche. Così, deposi con gentilezza il mio amico e gli strizzai l’occhio.
-Coraggio, Teddy. Se vuoi, per passare il tempo, puoi chiacchierare con la signorina. Magari trovate qualcosa in comune…
-Ho cose più importanti da fare che intrattenere i pupazzi!
Probabilmente anche Teddy avrebbe detto lo stesso. Ma quando mi allontanai nel corridoio, lo vidi imperturbabile e fui certo che non avrebbe sentito la manca della gentildonna.
Entrando nella stanza in cui stava mia sorella, vidi un gruppetto di familiari che si accalcavano attorno alla minuscola culla. Una faccina tonda e rossa, due braccine che si agitavano, due piedini imprigionati in calzine bianche.
-Cucci Cucci! Tesoruccio….
 -Pisillotto bello-bello! Bello, lui!
-Brrrr…. Ciciciiciicicii….. bello di zia, lui!- pizzicotti alle guance e gratatina ai piedini.
Cercai di accostarmi alla culla, ma la barriera umana di parenti me lo impedì. Neanche un capo di governo fu più inavvicinabile di mio nipote in quel momento.
-Pi-pi-pi-pi-pi!….mu-mu-mu-mu-mu!… Bello dello zio!
-E questi piedini grassi-grassi, di chi sono? Eh? Ma della zia!
La zia in questione aveva dei piedi che sembravano due zamponi.
-E il culetto bello? E’ dello zio, il culetto bello!
Osservo il fondoschiena di mio zio e considero il suo un pio desiderio.
-E il pisellino? Il pisellino bello? E’ della zia!
E no, la zia col pisellino, no! Ma non faccio in tempo a protestare, che Luca inaspettatamente rigurgita un po’ di latte. Mia sorella si fa largo e prende in braccio l’erede. So che rigurgitare è un incidente molto frequente nei bambini piccoli, spesso a causa della difficoltà che incontrano nel digerire il latte. Ma in quella precipua circostanza, ritenni che Luca ne avesse ben donde e che il vomito fosse stato causato dagli abominevoli commenti dei miei parenti, difficili anch’essi da digerire. Forse più del latte.  

Il rientro di mia sorella nella stanza interrompe il mio viaggio nel tempo. La piccola ha cominciato ad agitarsi nella culla.
-Sicuramente ha fame…
-Senti…Quand’è che sarebbe quest’appuntamento?- chiedo, ormai quasi sconfitto, accarezzando la morbida testolina castana accanto a me.
-Domani…- e senza darmi tempo di prendere fiato per imprecare, aggiunge- Guarda, è meglio così. Ti togli il dente malato e non ci pensi più.
-Beh, che dire? Se la metti così… Qualunque donna sarebbe lieta di essere paragonata ad un dente cariato. L’unica speranza che mi rimane, a questo punto, è una lunga anestesia.

lunedì 4 ottobre 2010

Ciao

L’amavo da lontano ma non avevo mai avuto il coraggio di parlarle.
La seguivo, non visto, mentre faceva jogging nel parco; quando si fermava al rubinetto per dissetarsi, la fissavo da dietro l’albero, quando iniziava lo stretching, la osservavo da dietro un cespuglio. Conoscevo ogni suo spostamento perché erano mesi che non la perdevo di vista, mai, neanche per un secondo.
Per non impazzire decisi che dovevo fermarla e presentarmi. Tanto che poteva succedere di tremendo? Un NO, un rifiuto, una risata sprezzante? Ero pronto a tutto, ma sapevo di dovermi giocare bene quell’unica possibilità, perché forse non ne avrei avuta un’altra. Sapevo di dovermi giocare il tutto e per tutto in quell’istante in cui i nostri occhi si sarebbero incontrati e lì, in quel preciso momento, avrei capito se avevo una chance o no.

Non ho amici e quindi feci una ricerca su internet per sapere come dovevo comportarmi. Un sito che forniva informazioni allo scopo, diceva che le cose importanti da considerare erano due: vestirsi comodi, perché si deve essere completamente a proprio agio, e trovare la frase giusta da dire, con la quale ci si gioca il tutto e per tutto in una frazione di secondi. Come avevo già pensato, in pochi istanti mi sarei giocato il mio futuro.

Mi preparai psicologicamente per un mese finché non mi sentii pronto e finalmente il gran giorno arrivò.
Quella mattina mi vestii comodo e, mentre mi recavo al parco dove sapevo che l’avrei vista, continuavo a ripetermi la frase che avevo deciso di dirle. Non volevo certo che l’emozione mi facesse qualche brutto scherzo.

La vidi arrivare, bella come il sole. Quando fu ad alcuni metri da me, sbucai da dietro il cespuglio e mi parai davanti. Lei si bloccò e mi guardò, forse un po’ sorpresa ma anche intimorita.
-Ciao.- le dissi e aprii l’impermeabile.
Mi guardò negli occhi poi mi riguardò un po’ più giù e scappò via urlando.
Ora, ditemi voi in cosa ho sbagliato!

sabato 18 settembre 2010

Il bacio.


Milano, Pinacoteca di Brera. Ore 12,30. Una coppia di anziani coniugi seduti davanti al Bacio di Hayez.
Lui con gli occhi sulla Gazzetta dello Sport e lei che fissa, rapita, il dipinto.

-Alfio, tu non mi hai mai baciato così.- commenta lei con un sospiro.
-Così come, Tecla?
-In quel modo, come se fosse il nostro ultimo bacio! O forse il primo.
-Ricordare il nostro primo bacio sarebbe un’impresa. In effetti avrei difficoltà anche  per l’ultimo.
-Guarda come lui tiene il volto di lei, come sfiora la sua pelle. Si vede che la ama immensamente.
-Hai perfettamente ragione, si vede benissimo. - concorda lui, con gli occhi fissi sulla Gazzetta.
-Sai che penso? Che sia un addio… Chissà fra quanto tempo si rivedranno! Sembra quasi che vogliano ritardare il momento della separazione. Io non ho mai avuto un addio così.
-Mai disperare. - considera Alfio, cambiando pagina.
-Vedi com’è romantico? Guarda il suo cappello, come fa ombra ai loro volti, quasi a celarli al  mondo intero.
L’uomo solleva gli occhi  mezzo secondo, per osservare meglio il copricapo.
-Mi sa che è un alpino.
-E poi quell’abito, che meraviglia! Voglio pensare che sia un pegno d’amore. Se un uomo regala un abito alla propria donna, vuol dire che la conosce profondamente. E tu! Che fai tutte quelle storie quando ti chiedo di accompagnarmi a fare shopping!
-Il tuo non è shopping, Tecla. In quelle occasioni ti trasformi in un guastatore che viene paracadutato oltre le linee nemiche.
-Guardarli mi trasporta in un’altra epoca, in cui vivevano dame  e cavalieri. Rimarrei per ore a fissarli!
-Alle 3 c’è Milan - Inter…
-E guarda lei come  si aggrappa a lui… Certamente lo sta supplicando di portarla con sé, e lui -se potesse  parlare- direbbe di sì. Ne sono certa.
-E da cosa lo deduci?
- Perché tu non mi hai mai baciato così, non  hai mai sfiorato il mio volto in quel modo  e l’unica volta che mi hai portato con te è stato in viaggio di nozze.

 







L'urlo.


-Teeeerrrraaaaaaa!
L’urlo uscì straziante dalle fauci deformate.
La realtà si ripiegò su se stessa, il fiato mancò, il cuore smise quasi di battere.
Può un uomo sopravvivere a tanto?
-TEEERRRAAAAAAAA!
E fu ancora quel terribile urlo, disperato e incredulo, mentre l’ultimo capello, staccatosi dall’alveolo lasciò per sempre il suo lido natio. E cadde a terra.


venerdì 17 settembre 2010

C'era una volta.

-Udite, udite! Il re di un castello dietro l’angolo darà in sposa la sua bellissima figlia, principessa Xafhron dai piedi nudi, a chiunque riuscirà a scacciare dal suo dolce viso il pianto e a farla ridere nuovamente! Gentiluomo o popolano, libero professionista o statale! Chi volesse cimentarsi in questo arduo compito, dovrà farsi trovare alla mezza davanti al castello! E così facendo svelerà anche il mistero del Bosco di Xafhron! Non sono ammessi ritardatari! Udite, udite!

Il cavaliere di Xamphia meditò: bellissima figlia, nonché principessa, anche se dai piedi nudi. Perché non tentare? Lui era famoso per le sue strorielle, e certamente non avrebbe avuto difficoltà nel trovarne una che facesse ridere la bella principessa Xafhron dai piedi nudi.
Un’anatra dalle piume argentee gli morse uno stinco.
-Figlia di un’oca!- gridò il Cavaliere, cercando di afferrare l’impudente. Ma l’animale fuggì e a lui  rimase in mano solo una piuma argentea.

Salì sul suo destriero Duecavalli e si avviò. Giunto davanti al castello, vide una fila infinita di cavalieri, contadini, principi e balossi. Tutti lì per la bella principessa Xafhron dai piedi nudi, pensò. La vittoria non sarebbe stata facile.
Intanto i pretendenti erano stati raggruppati nella sala principale. Le porte furono chiuse e sprangate.

 Davanti, ben visibili a tutti, stavano il Re, la Regina e la principessa Xafhron dai piedi nudi.
“Ammazza, che piedi!”, pensò il cavaliere, osservando le fette della bella Xafhron, che a occhio e croce calzava 45 o 46. Ma era tutto ciò che si vedeva, perché ella era celata agli sguardi altrui da un velo, che faceva solo intravedere una presenza, ma di certo non consentiva di valutare alcunché in termini di bellezza. Il cavaliere imputò il viso celato ad un estremo di modestia e non si preoccupò, anche se quei piedi non erano certo un bel vedere.

 Intanto, uno dopo l’altro, i pretendenti si fecero avanti e chi con facezie, chi con motti di spirito, tentavano a modo loro di rallegrare Xafhron. Ma tutti, uno dopo l’altro, fallirono. Il Re e la Regina ormai erano due maschere di tristezza. Non che all’inizio fossero granché felici, anzi.
Giunse al fine il momento del cavaliere.
-Bene, cavaliere, e voi?- chiese affranto il Re.
-Ehm, maestà…
-Chiamatemi papà!
-Papà… ehm, posso avvicinarmi alla principessa Xafhron?
-Certamente…- acconsentì la regina afflitta.

Il cavaliere si accostò e  fulmineo allungò la piuma argentea verso i piedoni non proprio principeschi della donzella e le  fece un po’ di solletico.
Dopo una frazione di secondo la principessa scoppiò a ridere. Una risata così sguaiata da poter essere tranquillamente accostata al rumore che fa il treno quando frena in curva.  Con lei seguirono a ruota tutti, Re, Regina e cortigiani. Tutti ridevano a crepapelle e la risata, liberatoria, non  s’arrestava più. La principessa, frattanto, si era a tal punto scomposta che il velo si era divelto, mostrando un volto che faceva assolutamente pandan coi piedi. Inoltre una folta peluria arricchiva il suo labbro superiore. Insomma, per farla breve, la bella principessa Xafhron dai piedi nudi era un cesso.
Il cavaliere, approfittando dell’ilarità generale, si dileguò, e fuggendo comprese ben bene cosa fosse il Bosco di Xafhron.

Irresistibile

L'inverno si preannunciava come il più triste e cupo degli ultimi anni e, mentre in paese la gente cominciava a far provviste in attesa dell'incombente bufera, Richard fumava tranquillo il suo sigaro cubano, tenendo i gomiti appoggiati alla ringhiera del terrazzo.
Odiava fumare, ma era convinto che farlo lo rendesse estremamente seducente agli occhi delle donne. Perché si sa, il sigaro è decisamente maschile, mentre la sigaretta è del tutto femminile.
E lui era maschio e lo era fino al midollo.
Il cielo plumbeo in lontananza non dava speranze, la bufera sarebbe arrivata e sarebbe stata terribile. Ma lui non se ne curava, col suo sigaro cubano tra le dita e la sicurezza d’essere irresistibile per ogni donna che gli passasse accanto. Anzi, la fama lo precedeva. Come un conquistatore, che trova le porte della città aperta e non deve combattere perché la sua fama era arrivata prima degli eserciti, così accadeva a lui con le donne. Sì, irresistibile era la parola giusta. Bello, maschio fino al midollo e irresistibile.
Continuava a compiacersi di questo pensiero, mentre una sottile lingua di fumo lo avvolgeva di mistero, rendendolo (se fosse stato possibile) ancora più attraente e desiderabile agli occhi delle donne che passavano casualmente sotto il suo balcone. Molte, forse troppe, ma cosa poteva farci lui se era così maschio?
Piaceva e si compiaceva di questo. Un sorriso appena accennata sulle labbra virili, le guance ben rasate, i capelli neri e lucidi. 
Così, inconsapevole della bufera ma convinto del proprio fascino, distratto  da pensieri ameni, con la mente persa altrove, dimentico del luogo in cui si trovava, Richard introdusse all’interno della sua narice sinistra il dito indice, quello che -più di tutti gli altri- ha da dire la sua.
Lo fece soprapensiero, coi ricordi dell’ultima donna conquistata, e di certo non se ne avvide, ma la natura -a volte- è madre e matrigna. Forse dimentico della realtà che lo circondava? Di certo del luogo in cui si trovava,  esposto com’era allo sguardo di chiunque.
Fatto sta che il suo dito, insinuatosi poco eroicamente nella cavità, cominciò a perlustrare l’aerea condotta, fino al ritrovamento, forse fortuito, di ciò che cercava.
Non pago di ciò, con quel tesoro tra le dita, cominciò a lavorare la materia prima, solo per un istante priva di forma, fino a ridurla in schiavitù completa, ottenendo infine la sembianza cui lui ambiva.
Alla fine di quel nobile lavoro, Richard consegnò la sua opera all’eternità, abilmente, con pollice e medio flessi, lanciando nel vuoto quella parte di sé, forse non nobilissima, ma altrettanto vera.
Intanto la bufera si avvicinava.



mercoledì 15 settembre 2010

La prima parolina


Cosa c’è di più struggente della prima parolina pronunciata dal proprio figlio?
Io speravo fosse papà, mia moglie sperava fosse mamma. Mi sarei accontentato anche di pa', mentre mia moglie voleva la perfezione, e poiché lei ama la competizione scommettemmo sulla parola che avrebbe detto per prima.
Ad un certo punto ho temuto proprio che la prima parolina sarebbe stata cacca.
E, tutto sommato,  me ne sarei fatto una ragione. Pensavo, tra me e me, meglio cacca di mamma. Dopo tutto, anche cacca ha la sua utilità, dicevo a mia moglie. E, pensavo altresì, la scommessa sarebbe ancora valida.
 Ma lei no. Non avrebbe accettato che la prima parolina di nostro figlio fosse cacca, anche se (e me lo disse chiaro) meglio cacca di papà. Sebbene, sottolineò, la scommessa sarebbe stata ancora valida
Ma la sua prima parolina non fu papà, né mamma e né cacca.
La disse una sera, mentre guardavamo un programma alla tv. La disse chiara e fu: cotti. Poi, la ripetè diverse volte e non ci fu alcun dubbio: la prima parola di mio figlio era stata cotti.
Ma la cosa peggiore fu che, movendo i suoi primi passi, si avvicinò alla tv e guardando Jerry Scotti, disse: “Papà! Papà! Papà!”.
Ma mia moglie non me la diede buona.

lunedì 13 settembre 2010

Abnegazione

Lui era uno che, in ciò che faceva, metteva anima e corpo.
Dapprima aveva provato a farla finita col gas. Ma il suo palazzo non era ancora servito da quello di città, quindi aveva usato la bombola, che era finita sul più bello.
Poi aveva pensato ad un’arma da taglio. Facile da reperire, il cassetto della cucina ne era pieno, e di tutte le dimensioni per giunta. Aveva avuto solo l’imbarazzo della scelta, ma poi non se l’era sentita. Non per viltà o che, ma solo che non era certo di riuscirci con un solo colpo, e lui le cose o le faceva bene o non le faceva per niente.
Poi aveva pensato ad un classico western e aveva ragionato sul cappio al collo. Però si era rivelata una procedura troppo lenta, e lui aveva perso subito la pazienza.
Poi era stata la volta del veleno, ma da qualche parte aveva letto che è un metodo che usano prevalentemente le donne. E aveva desistito.
Aveva anche provato a buttarsi da un ponte. Si era organizzato perfettamente, ora giusta, giorno giusto. Ma uno che sa nuotare bene come lui, difficilmente affoga.
E così, nonostante tutti i suoi sforzi e ragionamenti non era venuto a capo di niente.
Poi un giorno accadde che, facendo una manovra azzardata con l’auto, s’era guadagnato da uno che passava un bel: “Ma vai e sparati!”,
E così la sua vita aveva riacquistato un senso. Anche se per poco.



venerdì 27 agosto 2010

Mai dire quattro, di Matteo Saltori

Ho avuto il primo attacco di diarrea il quarto o il quinto giorno.
Ero stremato per il caldo. Era fine maggio e la temperatura oscillava fra i 25 e i 30 gradi. Umidi per giunta.
Sommiamoci gli effetti deflagranti del fuso orario. Dormivo di giorno e stavo sveglio la notte.
Non mi ero ancora abituato allo sbalzo del jet lag. Passavo le giornate a ciondolare. Il mio corpo non capiva perché di notte dovesse esserci tutta quella luce. E di giorno, il buio!
Ho provato a spiegarglielo, ma non ho ottenuto che scarsi risultati. Ero settato sull’orario italiano. E così sarei rimasto per quasi un intero mese.
Niente di strano che mi venisse un po’ di cagotto!
Al terzo giorno di diarrea comincia a venirmi il sospetto di essere stato poco previdente. Non ero mai stato all’estero. A parte una gita scolastica a Budapest, in quarta liceo. Ma non era poi così estero. Era pur sempre Europa in fondo.
Sarà l’acqua? Sarà qualcosa nel cibo? Xiao, nonostante gli anni lontana da casa, non risente di nulla. Nemmeno del fuso orario sballato.
Già dalla prima mattina si alza pimpante e comincia a divorare una zuppa di spaghetti di riso in brodo con contorno di fagiolini. Caldi.
Alle otto della mattina.
Il mio stomaco, uso alle colazioni italiane, comincia a reclamare tè e biscotti. O in alternativa, qualcosa di freddo. Tipo del gelato. Che purtroppo in Cina non esiste. Come non esistono i biscotti, e nemmeno il tè ultra zuccherato che vorrei io. Anche perché non esiste lo zucchero. O se esiste dev’essere un segreto di stato, ben celato in qualche bunker accessibile solo all’intellighenzia comunista. Non capisco perché se lo tengano stretto. Non mi sfiora neppure per un istante che un miliardo e mezzo di persone possa vivere senza abbondanti dosi di zucchero. Ci dev’essere qualcosa sotto. Un complotto governativo. Gli alieni. Atlantide.
La morale è che non ho trovato nulla in grado di dolcificare quell’acqua calda e verdina che loro chiamano tè. E che sarebbe il vero tè, intendiamoci. A differenza delle schifezze in bustina che beviamo noi.
Ma io ero ormai dannato dal consumismo occidentale e assuefatto senza scampo alle schifezze in bustina.
Il problema della colazione quindi si ripresentava tutte le mattine. Che mangiare?
C’erano gli avanzi della sera prima.
L’immancabile riso in bianco. Da non confondere con il nostro riso in bianco.
Se un cinese dice riso in bianco intende esattamente questo: riso e basta. Bollito, scotto, zuppo d’acqua e senza sale.
Poi i gamberetti fritti, carne di manzo in brodo, uova, qualche tipo di pesce. Verdura a volontà, meglio se bollita e in brodo. E il tofu.
C’era sempre del tofu che serpeggiava malefico in giro per la tavola.
Una mattina ho provato a chiedere latte e mi sono ritrovato con una scodella in mano, riempita fino all’orlo di un liquido bianco che sembrava proprio latte.
Era latte. Ma di tofu.
Credo di essermi anche sforzato di berlo tutto. Anche perché avevo quattro o cinque paia d’occhi che mi fissavano.
È buono? È buono?
Non ho più chiesto latte da quel giorno.
Gamberetti allo zenzero e maiale fritto come prima colazione?
Dai qua, ci penso io!
Ma torniamo alla diarrea. Dopo essere rimasto vittima del mio intestino per tre giorni, decido di tirare fuori la mia scorta di enterogermina. La tenevo per le emergenze e quella lo era. D’altronde, quante volte mi doveva venire la diarrea in un mese?
Arrivati a questo punto, ingenuo non è la parola giusta per descrivermi. Ce n’è un’altra, un po’ più pesante. Ma siccome nutro ancora del vago rispetto per me stesso, non la userò in questo contesto.
Diciamo che ero un ottimista. Mi ero portato quattro fiale di enterogermina. Non quattro confezioni. Quattro fiale.
Una, due, tre. Quattro.
Per un mese intero.
Di solito me ne basta una per mettermi a posto. E così è stato.
Una al giorno. Per quattro giorni.
Sono stato anche quasi bene.
Il quinto giorno mangio, mi alzo, mi guardo intorno…mi sento un po’ a disagio, non capisco…poi la diga si schiude e io corro e mi catapulto dentro al cesso.
Faccio appena in tempo a sedermi che tutto quello che non era uscito in quei quattro giorni esce adesso. Violento e liquido.
Quando riemergo ho il volto scavato e sono più a secco di una pompa di benzina la domenica sera.
Allora ho capito che quattro non bastava.
È il numero della morte per di più. In cinese, quattro si pronuncia in modo simile alla parola morte. È il loro numero porta sfortuna, l’equivalente del nostro diciassette, sommato anche alla potenza del tredici.
Otto invece è un buon numero. Se ci fate caso, le olimpiadi in Cina iniziarono alle 8:00 dell’8 agosto dell’anno 2008.
Le otto, dell’otto dell’otto dell’otto.
Io invece avevo quattro enterogermine. Oltre al fatto che erano troppo poche (trenta sarebbe stato un numero più congruo), avevo anche scelto senza saperlo il numero porta sfiga cinese.
E qui si apre un interessante dibattito. Se io sono italiano e credo al diciassette, quando vado in Cina rimango influenzato dal numero quattro o continuo a essere tiranneggiato dalla potenza del diciassette? È il luogo che conta, la somma delle impressioni e delle credenze collettive, oppure il background culturale di provenienza è più forte?
Potevo sperare con il mio imprinting di sfidare la mente collettiva della superstizione cinese?
Non lo so. In verità non credo al diciassette e nemmeno al quattro. Ho creduto all’otto in passato e non ha funzionato. E sono nato il giorno tredici.
Anche il mio intestino era un agnostico. Quando qualcosa lo ha disturbato, che siano stati numeri, schifezze contenute nell’acqua o altro, non ci ha pensato due volte e si è ribellato.
Per tutto il mese. Un mese di diarrea.
Un mese a correre al gabinetto dalle sei volte al giorno in su.
Spesso perdevo il conto.
Peccato, forse avrei potuto vincere qualche record.
Ma sono cose a cui non pensi al momento.
In quel momento, ti sembra sempre che ci sia qualcosa di più urgente da fare.





martedì 24 agosto 2010

Amore e Psiche

- Ce la fai?
- Sì, credo di sì...
- Senti, ho un po’ di prurito proprio lì, sulla tempia, non è che puoi…
- Ma certo. Ecco, va bene così?
- Oooooohhh… sì, grazie!
- A me sta venendo un crampo al braccio sinistro… ma quanto dobbiamo stare ancora in questa posizione?
- Che ne so! La prossima volta che mi viene in mente di accettare un lavoro simile, dammi una randellata.
- Non dubitare. Ma quanto c’impiega ‘sto Canova?
- Non so. Pare, però, che sia il migliore…
- Ma con la scusa dell’arte, tu e quella mano proprio lì…
- Col dolore che ho al ginocchio sinistro, credimi, è come se la poggiassi sul marmo!
- Certo che voi uomini, pur di tastare una donna, sapreste dire qualunque cosa!


lunedì 23 agosto 2010

Un po' di felicità

Mario non era un uomo felice.

Ma non come vorrebbero certuni, quando esprimono il loro desiderio di felicità. Mario voleva solo una vita normale, essere amato da sua moglie e dai suoi figli, poter tornare a casa la sera e ritrovarli tutti ad attenderlo. Chiacchierare del più e del meno in attesa della cena, mangiare un boccone con loro, guardare un po’ di tv assieme o anche dar le chiavi della macchina al maggiore e fare le solite raccomandazioni che si fanno ai giovani di vent’anni.
Purtroppo sua moglie lo tradiva e non era la prima volta. Lo ignorava, lo avviliva, gli diceva che non aveva le palle e che un giorno non sarebbe più tornata. Lui, nonostante tutto e assurdamente, l’amava e la desiderava ancora, come si desiderano le cose impossibili, con quel dolore sottile che s’impossessa dell’anima. Era un tormento inesorabile che lo consumava nell’intimo, e mentre fuori sembrava tutto uguale, dentro era morto.
Suo figlio frequentava gente strana e pericolosa; forse aveva cominciato a drogarsi. Quel figlio che aveva desiderato più d’ogni altra cosa, per il quale aveva vissuto, sperato, fatto progetti e fantasticato. Non su chissà che, ma solo un futuro normale, una compagna che lo amasse, magari un nipotino. Suo figlio, che forse suo non era.
E poi c’era la piccola, così speciale e così diversa. Sempre immobile sulla sedia a rotelle, con gli occhi vispi che dicevano tutto quello che la bocca non poteva. Perché sua figlia non parlava, non aveva mai parlato, e non si muoveva. Tutti gli specialisti avevano dato lo stesso responso: non era ritardata, ma aveva subito una lesione irreversibile alla colonna vertebrale.
Quel giorno, però, Mario aveva deciso che le cose sarebbero cambiate, che anche lui avrebbe avuto un po’ di felicità.
Così, uscì presto e fu il primo ad entrare nel negozio di scarpe non troppo distante da casa. Misurò quel paio, anche se di due numeri più piccolo del suo. A niente erano valse le insistenze del commesso affinché le misurasse del numero esatto, lui -irremovibile- aveva chiesto quel numero, decisamente e assurdamente troppo piccolo per lui. Aveva anche voluto tenerle ai piedi e il commesso non aveva obbiettato, considerandolo certamente pazzo.
Era uscito a piccoli e dolorosi passi dal negozio, e con una sofferenza indicibile aveva percorso la poca distanza che lo separava dalla sua abitazione. Da subito ogni passo era stato un tormento per i suoi piedi. La pelle bruciava, i muscoli delle gambe erano rigidi per lo sforzo. Quasi arrivato, il dolore lo aveva sommerso. Ormai sentiva la poca carne delle sue estremità dilaniata da quelle scarpe troppo strette, incomprensibili come la sua decisione.
Entrato a casa con gli occhi lucidi, aveva raggiunto la poltrona del salotto, a pochi centimetri da sua figlia, un mobile tra gli altri.
-Meno male che sei tornato! Io sto uscendo!- aveva urlato sua moglie. Poi solo la porta d’ingresso sbattuta e il suo profumo.
Dopo un po’ si era affacciato suo figlio.
-Me li dai trenta euro?
-A cosa ti servono?- aveva chiesto in un soffio.
-Sei un vecchio rompi coglioni!
Un istante dopo ancora la porta d’ingresso.
Solo, con quel poco di forza che gli era rimasta, col dolore che lo stordiva e la vista annebbiata, si tolse quelle scarpe troppo strette.
Una sensazione meravigliosa lo travolse, un brivido di felicità percorse la sua colonna vertebrale, come un orgasmo, e un debole lamento gli sfuggì dalle labbra. Si sentì bene, assurdamente bene, coi piedi finalmente liberi. Con gli occhi chiusi si godeva totalmente quel momento, in un amplesso con se stesso così appagante e pazzesco.
Proprio quando la sua coscienza gli suggeriva che quella era l’unica felicità che gli sarebbe stata concessa, sentì:- Papà…
Si voltò verso quella figlia così speciale, che lo guardava veramente.
Poi osservò le sue scarpe nuove e sorrise.

sabato 21 agosto 2010

Non c'è niente di più provvisorio delle cose definitive

Ho imparato che a volte non c’è niente di più provvisorio delle cose definitive, come quando Paola mi diceva “ti amerò per sempre!”. Io le credevo, ma domandavo “Come fai a sapere che sarà per sempre?”. Lei, sorridendo, mi guardava come si fa con le persone tarde, mi prendeva la mano e dolcemente sussurrava “Lo so… e basta”.
In effetti, fu proprio “basta” la parola che mi disse poco tempo dopo, quando capì che non mi amava più. Io, volendo fare la parte di chi, nonostante tutto, cade sempre in piedi, in quel doloroso frangente le chiesi ironico “ma non dovevi amarmi per sempre?”.
In quell’occasione non mi sorrise e non mi prese la mano, ma continuò a guardarmi come si fa con le persone tarde. Sempre dolcemente, però, mi sussurrò “Non c’è niente di più provvisorio delle cose definitive”.
Non ebbi abbastanza prontezza per rispondere a tono, ma mi limitai a fare la faccia da cernia, occhio lucido e bocca socchiusa. O da persona tarda, se preferite.
Paola di mestiere faceva, anzi fa l’ hostess, ed è forse grazie al suo lavoro che ha affinato la capacità di rispondermi mezzo secondo dopo che io avevo finito di parlare. Sicuramente essere hostess di voli intercontinentali l’aveva messa di fronte alle richieste più assurde. C’è chi si fa prendere dal panico e vuole scendere, così, come si fa con l’autobus. Oppure c’è chi ha pretese culinarie fuori luogo, visto che il massimo del pasto su un volo intercontinentale è un contenitore a più scomparti sottovuoti. Il suo contenuto, che più che fuoriuscito da un menù d’alta cucina sembra opera di un pittore futurista, ha sempre qualcosa di misterioso e individuarne la composizione è spesso lavoro adatto ad un medico legale.
Poi ci sono anche quelli che vorrebbero dirottare l’aereo, ma questa è tutta un’altra storia.
Il giorno in cui lei mi disse di aver capito che il nostro rapporto era arrivato al capolinea, indossavo un accappatoio-kimono, regalo di uno dei suoi esotici viaggi intorno al mondo. Mi sentivo sempre un po’ ridicolo quando lo portavo, perché la taglia giapponese XXL non corrisponde minimamente alla nostra. Essendo alto quasi uno e novanta e con una peluria molto poco orientale, con quella vestaglia sopra le ginocchia e le maniche troppo corte, avevo sempre l’impressione di indossare qualcosa di non mio, ma soprattutto di decisamente troppo muliebre. In aggiunta, ritengo anche di non possedere la dignità degli uomini orientali, che sanno indossare quella veste come se portassero addosso una gloriosa armatura. So per certo che il mio incedere con il kimono addosso era ridicolo abbastanza da minare la mia autostima, se non fosse che amavo a tal punto quella donna che avrei indossato anche un tutù rosa, se me lo avesse regalato lei.
Dunque, me ne stavo in cucina, con una tazzina di caffè fumante in mano, quando la vidi entrare, vestita di tutto punto. Le sue testuali parole furono “Mi sa che siamo all’ultimo scalo, tesoro…”. Paragonare la fine del nostro amore all’ultimo aeroporto di un ipotetico volo sentimentale, fu proprio da lei. Ed io mi sentii come quando il pilota comunica che dovrà tentare un atterraggio di fortuna in mezzo all’oceano e invita i passeggeri ad allacciarsi le cinture di sicurezza.
In fondo, però, ero preparato e fu questo che mi salvò. Perché dopo tre anni trascorsi assieme, in cui lei mia aveva fatto sentire un re, fu come se mi avessero tolto improvvisamente la corona e mandato in esilio.
Si avvicinò e mi sfiorò la guancia.
-Troverai sicuramente una ragazza che ti renderà felice e ti meriterà più di me…
-Chissà perché questa sicurezza l’ha sempre chi lascia e non chi è lasciato.
-Credimi, Lorenzo, sono sicura che sarà così!
-Come fai ad essere così sicura?
-Lo so… e basta.
A quel punto mi ricordai l’ epitaffio del suo amore per me.
-Ma non avevi detto che mi avresti amato per sempre?
E fu così che mi sentii rispondere quella frase del cavolo sulla provvisorietà delle cose definitive.
-Se è per questo, …- ribattei io, invertendo l’ordine degli addendi.- non c’è niente di più definitivo delle cose provvisorie, come chi parcheggia l’auto in tripla fila e dice che “sta tornando” e magari lo rivedi dopo un’ora.
-Non roviniamo tutto litigando…-m’interruppe lei, intuendo forse che il mio era un infantile tentativo di ritardare la fine di un amore, probabilmente era deceduto da tempo.
-E chi litiga? Ti sembro uno che ha intenzione di farlo?- chiesi onestamente, indicando con le entrambe le mani la mia mise da Madam Butterfly.
-Vorrei ricordarmi di te con un sorriso…-insistette lei.
-Se ci tieni, puoi anche farti una risata ripensando me.
-Ciao, Lorenzo…
Poi uscì dalla cucina e io la seguii, come un animale fedele che ama nonostante tutto. Afferrò il suo inseparabile trolley che aspettava all’ingresso, aprì la porta di casa e si diresse verso l’ascensore. Da lì mi indirizzò un cenno con la mano, poi la vidi sparire, e fui tristemente consapevole che la fine di quel rapporto avrebbe lasciato strascichi vischiosi e appiccicaticci nella mia psiche. Mi chiesi anche se l’avrei mai più rivista, ma ciò che rammentai per lungo tempo fu solo il suo dondolante fondoschiena, al quale fino a quel momento era mancata solo la parola, che -in quel drammatico addio- parve proprio averla acquista, perché mi sembrò rispondesse alla mia domanda con un “No-no!… No-no!… No-no!”.

venerdì 20 agosto 2010

Come si conquista una ragazza

Quando invitai Carla ad uscire per la prima volta, il mio amico Mario mi consigliò un conosciuto locale della città, sostenendo che le donne vanno portate in locali in cui ci sia abbastanza movimento, affinché si distraggano mentre l’uomo cerca di individuare il loro punto debole.


-Il primo incontro deve avvenire in un locale in, frequentato possibilmente da vip, con un’atmosfera cool, in un ambiente trend dove ordinare un eccellente pre dinner.- mi illuminò.
-Mi sa che per tutta quella roba non ho abbastanza soldi.- considerai io.
-Certo che li hai. Anzi, ti consiglio un Costa Smeralda per te e un Costa Smeralda 2 per lei.- specificò Mario.
-Con quei nomi sono CERTO di non avere abbastanza soldi.
-Vedrai che mi ringrazierai! Allora, ricordati, gli argomenti da evitare sono…
-Non è mica il mio primo appuntamento in assoluto!
-Ma è assolutamente da parecchio che non esci con una donna. Allora, decisamente da evitare l’argomento “ex”, ma nel tuo caso mi sa che non corriamo rischi. Non ricordo neanche l’ultima con cui sei uscito… Ah, sì, ora rammento! Quella che lavorava per un call center. Era carina…
-Carina, sì, ma tutti i nostri incontri erano preceduti da un’oretta di shopping bestiale, alla ricerca di qualcosa da abbinare a qualcos’altro. Dopo tre settimane avevo dei polpacci da ciclista.
-Avrà avuto anche qualche pregio!
-Sì, è sparita senza una telefonata. E lo considerai piuttosto strano, visto il lavoro che faceva.
-Sparire senza avvisare talvolta può essere auspicabile. Però, una cosa è certa: le donne amano parlare di se stesse, quindi tu falle mille domande sui suoi gusti, interessi… E mentre parla prendi nota.
-Prendo nota?
-Certo. E’ quando parlano di sé che scoprono il fianco. Così saprai dove colpire quando vorrai sbarazzartene.
-Non posso andare ad un primo appuntamento col pensiero della strategia con cui mi sbarazzerò di lei.
-Cosa credi siano gli accordi prematrimoniali?
-Non ci avevo mai pensato…
-Non ci pensa mai nessuno ed è proprio questa la fortuna di quegli accordi. Non servono per mettere in chiaro due cosette sui reciproci patrimoni, ma a predisporre delle trappole degne di esperti di caccia grossa.
-Mmm… hai qualche altra perla da procacciarmi?
-Falle qualche complimento sui capelli.
-I capelli?
-Sì. Le donne ci tengono molto. Il motivo mi è ancora oscuro, ma pare che ripongano molte aspettative sulla loro chioma, e più l’hanno lunga e più aumentano le aspettative.
-Ok. Un po’ come capita a noi, ma non coi capelli.
-Se è truccata dille che sta benissimo così, se non usa trucchi informala che preferisci le donne acqua e sapone. Ma dillo come se fosse una rivelazione che ti coglie di sorpresa. Usa frasi del tipo “Sai? Da cinque minuti mi chiedevo cosa mi attraeva nel tuo viso…”, e poi adatti a seconda della situazione.
-Mi fai paura.
-A volte me ne faccio anche io. Dunque, cos’ho dimenticato? Ah, sì, la tua faccia.
-La mia faccia? Cos’ha che non va la mia faccia?
-Hai la faccia del bravo ragazzo. Le donne al primo appuntamento non gradiscono i bravi ragazzi. Vogliono Johnny Deep. Tom Hanks lo voglio al decimo appuntamento.
-Tu non mi fai paura, mi terrorizzi.
-All’inizio vogliono l’uomo sicuro di sé, che le consideri poco, magari che bruci anche qualche appuntamento. Quando cominciano a sentirsi coinvolte vogliono uno che sia serio, che dia loro stabilità, un bravo ragazzo, appunto.
-Non posso credere che tutte le donne pensino questo!
-No, c’è anche un’altra categoria.
-E quale?
-Quelle che all’inizio sperano in un Johnny Deep che le faccia innamorare, al decimo appuntamento vogliono un Tom Hanks che le sposi e dopo 10 anni di matrimonio si pentono e vanno a cercare nuovamente Johnny Deep.